Prefazione al libro "Monk" di Laurent De Wilde
Edizioni Minimum Fax

PREFAZIONE
di Enrico Pieranunzi

Come nei grandi drammi shakespeariani, anche nel teatro del bop c'è un fool, un matto-saggio che sa e vede più di tutti gli altri, che comprende e non dice e quando dice lo fa in modo a molti incomprensibile. È Monk, musicista geniale, artista che "traccia la propria strada" e che afferma: "suona quel che vuoi e lascia che sia il pubblico a scegliere ciò che stai facendo, anche se ci met­terà quindici o vent' anni".

La musica di Thelonious è bella ma strana, obliqua, asimmetrica. È diversa dalla norma (chi può stabilire una norma nell'arte?) ma costruita con una logica interna potente e ineccepibile. Dirà di lui il grande Bill Evans: "Thelonious è pianisticamente meraviglioso. Si accosta al piano come da un angolo, ed è l'an­golo giusto". E ancora, a proposito della "stranezza" della musica di Monk, "Monk sa esattamente cosa sta facendo; strutturalmente, musicalmente, è perfettamente consapevole di ogni nota che suona".
Come Picasso e altri grandi astrattisti del nostro secolo tratta­no la figura, così il visionario pianista nordamericano tratta le for­me musicali: le destruttura per riorganizzarle in un modo lonta­nissimo dal già noto, dal già sentito. Come loro, Monk fa affluire alla coscienza immagini acustiche che appaiono "diverse" perché profondamente psichiche, che suonano misteriose ai più perché non razionali, inconsce. Sono queste immagini a nutrire gli incon­sueti, pregnanti contorni delle sue melodie, a costituire la fonte che consente a Monk di creare le sue personalissime forme sonore.
Il particolare, diverso, mondo musicale e umano di Monk vie­ne seguito da Laurent De Wilde con l'affetto, l'attenzione e la deli­catezza che si riservano alle persone "uniche", a quelle persone che con una parola, un pensiero o un suono hanno la capacità di scardinare la rassicurante griglia di riferimenti razionali in cui ten­diamo a confinare le nostre esistenze. Con la levità di un uccello che svolazza intorno a una statua, De Wilde ci mostra da ogni lato il "monumento Monk" e, come in un film di Disney, si ferma di quando in quando per parlare di alcuni aspetti specifici del jazz, per svelare taluni meccanismi segreti di questa musica tuttora poco comprensibile ai più, come quella di Monk lo fu per lungo tempo anche ai più fervidi cultori del jazz.
Narratore rapido e profondo, capace di intuizioni acute e sor­prendenti (Monk "scultore" di musica, Monk che ha verso il pia­noforte un approccio da vibrafonista), De Wilde - giovane, bril­lante pianista franco-americano - dispiega nel suo libro notevoli qualità di piacevolissimo, francesissimo, "esprit de finesse". Uno spirito che non viene meno neanche nell'ultimo capitolo del libro, quello in cui si parla del drammatico silenzio che caratterizzò gli ultimi anni di vita di Monk. Di fronte all'urlo senza suoni della follia, di fronte alla catastrofe psichica senza ritorno che si impa­dronisce della mente di un genio in grado di inventare un modo assolutamente originale di pensare e creare musica, De Wilde, uccello che svolazzava gioiosamente intorno alla "sua" statua, si trova in gabbia e sbatte più volte contro le pareti dure di un per­ché senza risposta.
L'immagine della musica di Monk che ci viene restituita da De Wilde è quella di un edificio che, come la chiesa di Auvers Sur l'Oise di Van Gogh, sta miracolosamente in piedi nonostante le imponenti forze sotterranee che l'attraversano e lo scuotono dal­le fondamenta. Inquietante e incombente quella chiesa, rappre­sentata dal pittore olandese nel momento in cui un terremoto la sta facendo crollare. Inquieta e inquietante quella musica, conce­pita da "un architetto musicale del più alto livello" (come di Monk ebbe a dire Coltrane) che forse fece tacere la sua musica prima che le sue strutture portanti cadessero di schianto.

Burbero, candido, profondo, misterioso Monk.


Enrico Pieranunzi
Roma, maggio 1999

BILL EVANS. THE PIANIST AS AN ARTIST. 
EDIZIONE CON TESTO INGLESE A FRONTE

Stampa Alternativa 2001

"La vita di ogni uomo è una storia", disse Bill una volta. Per un ascoltatore attento non è difficile cogliere la storia personale di Bill Evans attraverso la magia del suo sound. (...) La sua musica ha cambiato innumerevoli musicisti e persone che, incontrandola, hanno scoperto qualcosa di profondo dentro di sé. (Dalla Postfazione di Marc Johnson).
Proprio perché ci arriva da Pieranunzi - pianista di notevole talento e, anche, osservatore acuto e sensibile - questo libro si aggiunge come contributo significativo e di particolare pregio ai precedenti lavori su Evans, mantenendo, peraltro, una sua forte, solida identità. (Dall'Introduzione di Ira Gitler).

Enrico Pieranunzi, Bill Evans. Ritratto d'artista con pianoforte - Bill Evans. The pianist as an artist, edizione con testo inglese a fronte, libro + CD-Rom, pp. 157, Stampa Alternativa 2001, collana "New jazz people" isbn 8872265924.

Traduzione francese: Bill Evans. Portrait d'auteur de l'artiste au piano, éd. Rouge profond, Coll. "Birdland", 2004, traduit de l'italien par Danièle Robert.


Una storia lunga trent'anni

My first meeting with Chet was back in 1979 doing a concert in a club in The Marches. Even though we had never met or played together before I had this feeling that I already knew him very well.

Maybe because when I was a kid I had memorized a couple of his solos, which I’d heard on some of my father’s old 78s.

I really loved those solos, they kept me company, and I often found myself humming them under my breath while waiting for a bus… Anyway, I was really curious and excited about meeting him for the first time.

We agreed that we would play a selection of standards, and the music flowed soft and easy. At the end of the concert we exchanged a few words. Chet was pleased with how the concert had gone, so I got up my courage and boldly proposed cutting an album together (at the time I was in charge of the jazz division for a small Roman recording label called Edi-Pan). “I have to think about it”, he replied, “I’ll let you know”. He called me a few days later to accept. I was overjoyed and immediately got to work writing. That was how a composition that would later be entitled “Soft Journey” was born, and which I wrote especially for that special atmosphere that Chet was able to create with his trumpet. Then came “Brown Cat Dance”, a hard bop blues piece.
Maurizio Giammarco contributed a lovely piece, “Animali diurni”, that also gave Chet a chance to shine as the magnificent crooner he was. Then I decided to include a somewhat unusual minor-key blues piece, “Night Bird”, that I had written a couple of years earlier and that Chet literally fell in love with, later recording it dozens of times over and teaching it to trumpeters and other musicians around the world.
We rehearsed the repertory for several days and then recorded it. In short, everything was handled with the utmost of care and the album that came out was top quality. But in those days jazz market distribution mechanisms were very rudimentary and so, despite its highly favorable critical reception, the Lp remained an obscure find for true enthusiasts only.

A dozen or so years later I was in France working with the IDA label, for which I had already recorded three albums. I played “Soft Journey” for the producers, who reacted very enthusiastically and decided to re-release that old album as a CD, which again won critical acclaim but this time accompanied by the extremely positive response of a wide audience. Shortly afterwards, however, the recording company fell on hard times, production was suspended and “Soft Journey” went out of print and into its former obscurity, once again known only to a handful of collectors.

Now, after thirty long and tormented years, the album is finally going to be re-released and I want to thank those who decided to do it from the bottom of my heart—because it tells the tale of my first encounter with a unique artist who radically changed my way of playing, and bears witness to a musical and human experience that remains among the most profound, poignant and memorable of my entire life.

Enrico Pieranunzi


L’ “Isola di suoni”

Intervista Immaginaria di Enrico Pieranunzi a Domenico Scarlatti
n.b. L’intervista ha luogo ad Aranjuez, nel 1750

 

E.P. Buenos dias, Maestro Scarlatti...

D.S. Escarlati, Senor, si no le importa.

E.P. Escarlati?...

D.S. Voy a tratar de decirle Italiano ya que este parece ser su idioma... Dunque gentile signore il mio cognome e nome di battesimo furono di recente ufficialmente mutati per dare ad essi maggior consonanza con il Paese che da più di vent’anni ormai mi ospita, e che io considero a pieno titolo la mia terra di appartenenza, la mia nuova patria. Domenico Scarlatti, musico napoletano, non c’è più da molto tempo, Senor.… c’è ora “el musico espanol Domingo Escarlati”...o, se preferite, “Domingo Escarlati, Caballero del Orden de Santiago”. La di lui famiglia, i figli e soprattutto la sua musica appartengono ormai alla terra di Spagna.

E.P. Il Vostro dire è per me di estremo interesse Maestro e mi conferma cose che avevo già da un po’ udito dirsi...…orbene, Maestro, anzi, Cavalier Escarlati, potete concedermi un po’ del Vostro prezioso tempo?

D.S. In cosa posso servirvi? ....

E.P. Avrete forse sentito parlare del diffondersi di gazzette che ospitano scritti di vario argomento. Alcune tra queste – come quella per cui mi pregio di scrivere -- amano occuparsi delle cose dell’arte. La Vostra musica, Maestro Escarlati, è un argomento di grande interesse per i lettori…

D.S. Pensate davvero che qualcuno la conosca e che ad altri importi della mia musica Senor?…Essa non esce mai dalle mura di questi reali edifici. Solo alcuni allievi cui impartisco lezioni ne sanno qualcosa, ma per il resto…E poi, sapete, il tempo passa lentamente in questi pur augusti luoghi e il desiderio di comporre si affievolisce. Amo suonare, sì, ma non scrivo molto di quello che suono. E infine, Senor, non credo si possa dire della musica molto a parole… essa, se parla, parla di sé stessa...da sé stessa.


E.P. Eppure, vogliate perdonare l’insistenza, i pochi che hanno potuto ascoltare la Vostra musica o leggerla nelle poche edizioni scritte che ne esistono - è accaduto non molto tempo fa in Inghilterra - ne parlano come di una sorta di miracolo, qualcosa di veramente speciale. Alcuni, entusiasti, vollero paragonarla ad un’isola dalla vegetazione lussureggiante, ricca di fiori e colori i più diversi, un’isola di suoni attraversata da languori e dolori e furori, ove tutto raggiunge una particolare, straordinaria intensità…

D.S. Voi siete gentile e generoso Senor e le metafore con cui descrivete la mia musica sono davvero fantasiose e piene di immaginazione. Deduco poi dal vostro dire che vi sono noti gli Essercizi per gravicembalo da me fatti pubblicare a Londra alcuni anni fa. Ne sono sorpreso e onorato...muchas gracias…ma io sono un musico ormai vecchio, stanco e pieno di acciacchi, anche se in verità non posso negare che la mia passione per il cembalo sia ancora viva. A ciò molto contribuisce la mia amata regina, Sua Altezza Maria Barbara, di cui sono indegno insegnante e che di continuo mi chiede nuove composizioni da cui poter trarre diletto. Ella stessa, infatti, è esecutrice di straordinaria virtuosità e compositrice di musiche in cui l’immaginazione gareggia con la sapienza. Ma piuttosto, ditemi voi, ora: da quale terra venite?...


E. P. Vengo dall’Italia Maestro Escarlati, più esattamente da Roma …

D.S. Ah l’Italia, Roma...avete dunque fatto sì tanta strada per incontrarmi...Fui a Roma tanto tempo fa, dopo aver lasciato la mia amata Napoli…a Roma trascorsi anni felici. Fu là, in quella città piena di sapienza e di storia e, insieme, di una languida, contagiosa decadenza, che potei conoscere i segreti dell’antica polifonia. Fui Maestro di Cappella prima in S.Maria Maggiore, poi, anni dopo, nella Cappella Giulia. Vi scrissi molta musica, sacra e profana, vi conobbi la mia prima consorte, vi nacquero i miei primi figli…Fui anche in altre amene città italiane, a Firenze, a Venezia …luoghi lontani, nello spazio e nel tempo. Il mio cuore se ne è separato ormai, ma in qualche remoto suo angolo un po’ di quei cieli, dei suoni di quelle genti, è rimasto. E non vi nascondo che quando tocco il mio cembalo, ritmi di danza e canti di quelle terre affiorano qua e là tra le mie dita, come dolci carezze che scaldano l’animo...


E.P. E’ forse da queste evocazioni che nasce l’originalità della Vostra musica, Maestro Escarlati?... Si dice infatti, e si scrive, che la Vostra musica sia unica e dotata di grande originalità tra le musiche di questo secolo. E che risulta pressoché impossibile trovare scuole da cui discenda o generi cui assomigliarla. I Vostri pezzi di musica, Maestro Escarlati, sembrano insomma recare un’impronta che è unicamente vostra, e si dice vivano di una misteriosa vita propria. 

D.S. Il vostro dire mi lusinga, Senor...solo puedo dar gracias de nuevo... ma alla vostra domanda non so rispondere. Non mi curo di essere originale e non so dell’origine o dell’originalità della mia musica, amigo. E per essere sincero di cuore e di mente aggiungo che suono e scrivo quello che da me stesso sento venire. La mia musica sembra arrivare quando essa stessa vuole ed è solo allora, quando essa me lo chiede, che poggio le mie mani sul cembalo e le lascio andare dove vogliono. Poi, quando sento che esse combinano i tasti in una guisa che ha per me significato, decido di prendere penna d’oca e inchiostro e mi ingegno di vergare su carta quello che da me è stato inventato o si sta inventando. E ogni volta è un nuovo stupirmi... Ma di questo significato, Senor, non so nulla, non saprei trovar parole per descriverlo, so solo, per certo, che esso è là, quando c’è o mi pare che ci sia.


E.P. Alcuni chiamano la Vostra musica “Barocca”, aggettivo usato di frequente anche per denotare il secolo in cui per sorte Vi è toccato di vivere…

D.S. “Barocco”?...che strana, inconsueta parola…devo averla sentita pronunciare al tempo del mio soggiorno in Portogallo. In quel lontano Paese questa parola vuol dire infatti originariamente - pensate - “perla irregolare”. Si vuole dunque affermare, Senor, che la mia musica è una “perla irregolare”? Prendo questo come una lode...epperò chi può dire che la mia musica sia irregolare?…ci si vuol forse riferire con questo bizzarro attributo all’ armonia, ai ritmi o alla forma delle mie composizioni? La mia musica prende la forma che io le do, o forse quella che essa stessa vuol prendere, ed essa non è né regolare né irregolare, è quella che ha da essere, e non può essere altrimenti, Senor.


E.P. Il Vostro far musica sembra, da come ne date contezza, un continuo, incessante e imprevedibile movimento... una potente trascolorazione in suoni di affetti, di stati d’animo... può forse essere questo il senso della cosiddetta Vostra musicale irregolarità?...

D.S. Di nuovo, Senor, mi mettete in imbarazzo … è la prima volta, nella mia vita, che mi trovo a parlare della mia musica e la cosa, ad esser franco, non mi riesce affatto agevole. Voi dite di affetti, stati d’animo…la verità è che la musica mi abita, Senor, e che quando essa vuole parlare io la lascio parlare e mi dimentico di ogni altra cosa al mondo e tutto il mio me è dentro essa. E’ stata ed è il mio gioco, la mia visione, il mio sogno, la mia catarsi forse...altro non so dirvi.


E.P. Voi, Maestro Escarlati, amate improvvisare?...

D.S. Ciertamente, Senor, me gusta mucho,.. improvvisare è nel campo della musica l’attività più dilettevole ed è la più prossima al comporre…senza l’improvvisare il comporre non potrebbe essere …


E.P. Si dice che nel suonare all’improvviso Voi abbiate raggiunto un’abilità straordinaria…

D.S. Anche di questo vostro dire vi rendo grazie. Ma è bene sappiate che tutti i colleghi musici del mio tempo, avvezzi a suonare il clavicembalo o l’organo, sono abili nel suonare all’improvviso…


E.P. Si racconta anche, Maestro, che quando eravate a Roma, foste coinvolto in una sorta di musicale tenzone che ebbe a protagonista, insieme a Voi, il musico germanico Giorgio Federico Handel, grande rappresentante della tradizione organistica di quella terra…

D.S. Voi mi costringete ancora a ricordare, Senor…Dunque...conobbi il Signor Haendel a Venezia molto tempo fa. Era l’inizio di questo secolo ed eravamo entrambi molto giovani....Lui era già musico di grande fama e si diceva fosse uno straordinario improvvisatore. Ne ebbi in effetti conferma una sera in occasione di un carnevale in quella città. Lo sentii suonare il cembalo e ne rimasi molto impressionato: quello che riusciva a fare sulla tastiera era, Senor, realmente diabòlico...Qualche anno dopo, trasferitomi a Roma, venni a sapere che anche lui risiedeva ed operava lì. In verità non avevo in grande simpatia quel gigantesco musico, molto arrogante e pieno di sé e se fosse stato per me non avrei di certo mai neanche pensato ad una tenzone musicale con lui. Quel genere di competizioni sono del tutto estranee al mio temperamento, Senor... Non si improvvisa contro qualcuno, si improvvisa per sé, per cercare in solitudine qualcosa che a volte neanche si sa se c’è. Insomma, a parte qualche occasionale incontro, ognuno si dedicava alle proprie attività. In città si sapeva della nostra cordiale...non-simpatia, e molto si sussurrava della nostra differenza di carattere. In breve, fu Sua Eminenza il Cardinale Ottoboni, grande appassionato dell’arte dei suoni, ad avere l’idea di una tenzone musicale. Non potei rifiutare il suo invito e seppur a malincuore mi lasciai convincere ad accettare la sfida...


E.P. Come andò?...

D.S. Il mio amico sassone fu straordinario all’organo, ma io credo di aver dato prova superiore alla sua sul clavicembalo…mi giovarono molto in quell’occasione gli insegnamenti preziosi dei miei grandi maestri italiani, Francesco Gasparini, Bernardo Pasquini e, naturalmente, quelli di mio padre Alessandro. E ancor più mi giovò forse – perdonate il parlare un po’ arrogante - il desiderio imperioso di mostrare quello che io stesso non sapevo essere in grado di inventare…mani cuore e mente si fecero una sola cosa quella sera e dal mio cembalo uscirono musiche fuori dell’ordinario...così si dice mi accadde. 


E.P. Già, Vostro padre Alessandro, Maestro Escarlati…come erano i Vostri rapporti con un padre anch’egli musico e certamente musico di non poca importanza?

D.S. La nostra numerosa famiglia, i miei fratelli e sorelle, tutti ci dedicammo alla musica sotto la guida esperta e appassionata del nostro caro genitore. Attraverso lui la musica mi scelse, Senor....poi, subito dopo, fui io a sceglier lei...ed essa mi fu sempre amica e compagna fedele.


E.P. Ancora qualche domanda, Maestro: avete mai sentito parlare di una musica improvvisata chiamata “jazz”?....

D.S. Che oscura parola…quale il suo significato?


E.P. Oscuro anch’esso in verità…denota comunque una musica improvvisata di grande ritmo, piena di vita e spirito di danza, ricca di umori i più differenti e cangianti

D.S. Dalla vostra descrizione mi sembra di poter immaginare suoni non dissimili da quelli che io medesimo improvviso e compongo…


E.P. E’ una musica nata nella parte settentrionale delle Americhe…

D.S. Non ne ho notizia ma non mi stupisce…l’improvvisazione è universale, Senor, può essere praticata da uomini di ogni nazione, senza distinzione di razza… sempre essa è il primo passo verso l’invenzione di ogni musica., ed è, credetemi, un’arte nobilissima.


E.P. Che cosa direste se un giorno un musico improvvisatore utilizzasse i Vostri temi o i ritmi delle Vostre composizioni per improvvisare a sua volta?


D.S. Gliene sarei molto grato Senor...Vorrebbe dire che questo improvvisatore ha ritrovato in quei temi e ritmi le luci e le ombre, il sole e la vita e la danza che io stesso ho improvvisato al cembalo e poi rappresentato sulla carta da musica...e vorrebbe dire che tutto questo può generare, attraverso lui, altra vita e sole e danza.


E.P. Vi rendo le mille grazie, Cavalier Escarlati. I nostri lettori saranno felici di leggere queste Vostre parole sulla nostra gazzetta...

D.S. Fué un placer, Senor.

                Enrico Pieranunzi


Storia di un trio

 

La nostra storia musicale comincia nel 1984,in Italia.
Marc Johnson e Joey Baron si trovavano qui da noi come sidemen di Kenny Drew. Avevano in programma una decina di concerti con lui ma, per un serio problema di salute capitato a sua moglie, Drew dovette ripartire precipitosamente per la Danimarca, paese nel quale allora viveva. L’intero tour venne perciò cancellato e i due si trovarono senza pianista.
Ma tutto questo l’avrei saputo solo dopo. Le cose infatti andarono così…

Una sera ricevo una telefonata dal “Music Inn”, club in cui in quegli anni suonavo spesso. La voce al telefono mi dice: “Ciao, Enrico…ci sono qua due tali, un bassista e un batterista… sono rimasti senza pianista…perché non vieni giù al club e suoni con loro?…” Sorpreso ed incuriosito chiedo: ”Come si chiamano?…”. La voce al telefono mi dice il nome del bassista e mi prende letteralmente un colpo. Dico rapidamente fra me e me: ”Porca miseria, ma questo è il bassista che suonava nell’ultimo trio di Bill Evans… quello bravissimo, dal fraseggio e dal suono incredibili…penso che valga proprio la pena di andare…”. Era davvero una strana coincidenza. Proprio in quel periodo infatti ero molto preso dalla musica e dall’arte di Evans, e il fatto che di lì a poco avrei suonato col suo ultimo, straordinario bassista aveva semplicemente dell’incredibile.
Joey Baron, invece, non l’avevo mai sentito nominare. Avrei saputo poi che quella era la prima volta che metteva piede in Italia.

Il “Music Inn”, situato nel centro storico di Roma a poche decine di metri dal Tevere e a poca distanza da S.Pietro, occupava lo scantinato di un vecchio palazzo. Era una tipica cave insomma, come chiamano in Francia questo tipo di locale. Nei precedenti anni era stato per me un luogo importante, lì avevo suonato con tanti musicisti “storici”, con loro avevo vissuto emozioni fortissime, avevo scoperto la magia misteriosa e travolgente del jazz. Era quindi un posto a me molto familiare, eppure quella sera entrai lì con una strana sensazione dentro, una sorta di “turbamento calmo”…

Scendo le scale del club e raggiungo la stanza-salottino che funge da backstage. Lì, in un angolo poco illuminato, intravedo due ragazzi dall’espressione triste e rassegnata. “Devono essere i musicisti di cui m’ha parlato la voce al telefono” penso. I due appaiono stanchi, smarriti e non sembrano particolarmente reattivi. Dopo alcuni momenti di esitazione mi presento, ma loro non si dimostrano molto interessati alla cosa. A quel punto, sia per interrompere quell’imbarazzato silenzio, sia perché si avvicinava l’ora in cui solitamente aveva inizio il concerto, propongo di salire sul palco per suonare qualcosa e fare un rapido soundcheck… metto le mani sul piano, comincio a suonare “Someday my prince will come” e, aiuto! , in pochi secondi accade qualcosa di pazzesco…Mi trovo in mezzo ad una vera e propria esplosione di musica, un brivido fortissimo, interminabile comincia a percorrermi la schiena, una vera e propria ondata di energia e di calore mi invade e mi fa sentire in uno stato come di “sospensione”, un galleggiamento pieno di vitalità e di felicità … sento il cuore e la mente diventare mani, le mani fondersi completamente col cuore e con la mente…Non m’era mai capitato di provare una cosa del genere…che succedeva? Ero sconcertato, stupito…andammo avanti così per un po’, poi facemmo un break prima di iniziare, di lì a poco, il concerto. Ma che era successo?… Non riuscivo a capire, a spiegare…sì, razionalmente potevo pensare che il “miracolo” era dovuto al bellissimo suono del contrabbasso di Marc, o alla sfrenata fantasia di Joey alla batteria, alla prorompente gioia di vivere che traspariva da tutte le sue geniali invenzioni ritmiche. E d’accordo, certo, c’era da considerare anche l’enorme capacità che avevano entrambi di interagire con me, di sapere sempre esattamente se e quando suonare una nota o no…certo, tutto vero… Ma c’era qualcosa di più in quello che stava succedendo, qualcosa che letteralmente mi sconvolgeva…era qualcosa di misterioso, di profondamente sconosciuto che aveva a che fare con l’essenza stessa della musica e del mio corpo, qualcosa di potente, che aveva a che vedere con uno stato originario, nascente …era come trovarsi di colpo in un luogo in cui non ero mai stato prima…
Il concerto fu fantastico ed ebbe grande successo. Riuscimmo tra l’altro a recuperare una delle tante date che Marc e Joey avrebbero dovuto fare nel corso di quel tour mai avvenuto - quella di Palermo - e anche lì il concerto andò benissimo. A quel punto mi venne in mente di co-produrre un disco. Sentivo che questa nuova storia musicale, arrivata da chissà dove, doveva essere in qualche modo fissata, conservata nella memoria. Organizzai velocemente una seduta di registrazione a Roma e il 17 febbraio 1984 entrammo in studio. Il risultato fu New Lands, che qualche mese dopo sarebbe stato pubblicato dall’etichetta olandese Timeless.

Fu quello il primo capitolo su disco della nostra storia musicale cui seguì, due anni dopo, “Deep Down”, registrato a Milano per la Soul Note. Quel disco negli anni sarebbe diventato un cult per molti giovani jazzisti di ogni parte del mondo. Ne rimase colpito anche l’editore statunitense Chuck Sher, che volle includere Don’t forget the poet e Dee song, due miei brani originali presenti in “Deep Down”, nel secondo dei suoi prestigiosi Real Book. Un sogno dietro l’altro…

Dopo “Deep Down” ci fu un lungo periodo durante il quale non fu possibile riunire il trio. Tra le tante ragioni il fatto che Joey aveva cominciato ad ottenere il riconoscimento che il suo immenso talento meritava. Entrò a far parte, tra gli altri, del gruppo di Bill Frisell e così divenne sempre più difficile avere la sua disponibilità per tour o sedute di registrazione.
Ma io non riuscivo a dimenticare il suono, l’atmosfera unica di quel trio, e in un angolo segreto del mio cuore continuavo a coltivare la speranza che noi tre potessimo suonare di nuovo insieme. Sentivo che la nostra storia non era affatto finita e speravo che il mio sogno prima o poi potesse tramutarsi in realtà…
Fu, in effetti, così… L’occasione fu data dalla richiesta di incidere per una casa giapponese, la AlfaJazz, specializzata in dischi di trio piano-basso-batteria. La registrazione fu realizzata a New York, nel 1997, e…c’è da dirlo? Anche se non suonavamo più insieme da undici anni, il brivido, il gioco, il sorriso, la gioia di suonare e di vivere che venivano fuori appena toccavamo i nostri strumenti erano ancora interamente lì, in tutta la loro intensità, come in quei primi magici minuti di quel lontano febbraio del 1984…Il nostro interplay, la nostra intesa silenziosa, le dinamiche, lo swing, gli improvvisi cambiamenti di atmosfera, tutto accadeva con una immediatezza prodigiosa…era il prodigio del tempo che (non) passa, era il nostro canto del tempo, come diceva il titolo del cd che realizzammo in quello studio newyorchese, The Chant of Time …

Fu poi nel 2001 che si aprì un nuovo, appassionante capitolo della nostra storia. Iniziai infatti a collaborare con la CamJazz e quando mi fu chiesto quale gruppo volevo proporre per incidere arrangiamenti jazz di brani da film composti da Ennio Morricone non ebbi esitazioni: proposi il trio con Marc e Joey, “il trio del mio cuore”. Nacquero così in rapida successione Play Morricone, Current Conditions, Morricone 2. Poi nel 2004 - l’anno del nostro ventesimo “compleanno”… - fu festa grande. In marzo infatti facemmo un bellissimo tour in Giappone da cui fu tratto il doppio cd Live in Japan, che si può considerare una felice sintesi in musica di questa incredibile storia. E nel giugno incidemmo Ballads, un cd che ci sta dando grandi soddisfazioni.

E adesso?…E’ tutto da vedere…nuovi capitoli di questa storia devono ancora essere scritti…Ma sono sicuro che nello “scrigno” segreto di questo trio ci sono ancora tante gemme che in un futuro non lontano potranno mostrare tutto il loro splendore…

Enrico Pieranunzi